Embolizzazione varicocele femmine - Sindrome della congestione pelvica
Autore: Dott. Cesare Massa Saluzzo
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mob. 320 0120557
Il dolore pelvico è un grave disturbo per la vita di relazione di una donna e di un uomo che viene quasi sempre imputato alle più varie e fantasiose cause spesso senza alcuna attinenza con la realtà; può causare gravi problemi sociali come tra gli altri l'assenteismo dal lavoro per impossibilità a mantenere la stazione eretta per lungo periodo.
E’ difficile identificare la causa che determina il dolore e/o il senso di pesantezza riferito dai pazienti, ma in presenza della sintomatologia descritta deve essere sospettata, indagata e riconosciuta almeno la presenza di varici cioeè di dilatazioni venose anomale all'interno della pelvi sia femminile che maschile. Le varici del plesso venoso pelvico peri-ovarico interessano il 30-40 % delle donne in età fertile e il 50% di esse è asintomatica o paucisintomatica. Nell'uomo le varici pelviche interessano altri organi, ovviamente, e solo da 2-3 anni sono state riconosciute da alcuni come possibile causa di dolore pelvico.
Il varicocele ovarico noto anche genericamente come “sindrome da congestione pelvica” è una condizione benigna e non mette a rischio di vita la paziente, ma necessita di un trattamento mirato soprattutto ad alleviare o ad eliminare la sintomatologia dolorosa.
Il varicocele ovarico è la dilatazione della vena ovarica e del plesso venoso attorno all 'ovaio con flusso di sangue invertito al suo interno e ristagno attorno ad esso; si riscontra nel 30% delle donne in età fertile e la metà di queste presentano sintomi.
Fig. 1 – Tavola anatomica: utero e plessi venosi ovarici
La paziente riferisce un dolore a livello del basso ventre che si acutizza nel periodo pre-mestruale o durante e dopo i rapporti sessuali; il sintomo più frequente è la sensazione di pesantezza al basso addome che si presenta molto più insistentemente in posizione eretta e in seguito a sforzi fisici. Altri sintomi sono: senso di gonfiore o manifestazioni da compressione vescicale. E' spesso associato a varici degli arti inferiori. La diagnosi e la cura di questa patologia con le metodiche tradizionali nella donna non è semplice e l’intervento chirurgico o per via endoscopica è un’operazione complessa con possibilità di recidive. Per arrivare ad una diagnosi corretta, oltre ai sintomi fin qui descritti, occorre eseguire indagini radiologiche come eco-color-doppler (meglio se transvaginale) ed eventualmente anche se raramente una Risonanza Magnetica Nucleare o una TAC, per ottenere una visione quanto più precisa del problema.
Il dolore pelvico però può essere dovuto a molte altre cause come: Sindrome del Pudendo, fibromi uterini, calcoli ureterali, endometriosi, cisti ovariche, diverticolosi ecc. oppure, per rimanere in campo vascolare e venoso, il "dolore pelvico" nella donna può essere dovuto a presenza di varici vulvari, vaginali, perianali e di altri organi inseriti nello scavo pelvico.
Trattamento di prima scelta del varicocele ovarico è la scleroembolizzazione percutanea, trattamento mini-invasivo eseguito da un Radiologo Interventista. L'intervento viene eseguito in un ambiente chiamato sala angiografica.
Fig. 8 – Sala angiografica: qui si svolgono gli interventi
Nei centri più all'avanguardia l'intervento viene eseguito in Day Hospital: la paziente arriva in clinica la mattina presto ed esce dopo 4-5ore.
La paziente avverte solamente la puntura con la quale le viene somministrato l'anestetico locale per desensibilizzare la cute e il sottocute del punto scelto per l'ingresso (generalmente la regione alla piega del gomito come per un banale prelievo, altre volte all'inguine destra).
Con la puntura della vena ci si trova all'interno del sistema circolatorio venoso: da questa posizione, con l'ausilio di piccoli fili e tubicini si naviga all'interno dei vasi per raggiungere la parte dilatata della vena ovarica da trattare.
Fig. 9 - via di accesso percutanea |
Fig. 10 – Monitor per seguire la manipolazione degli strumenti all’interno del corpo |
Si esegue quindi uno studio del distretto venoso patologico mediante l'iniezione di una sostanza (mezzo di contrasto) che permette di vedere e valutare strutture di per sé non visibili con i soli raggi X. Si esegue una copertura antibiotica.
Fig. 2 – Immagine flebografica, dopo iniezione di mezzo di contrasto all’interno delle vene varicose, dilatate e incontinenti nella pelvi sinistra in donna di 37anni.
Fig. 3 - Cateteri di varie forme per navigare all’interno delle vene ed iniettare sostanze
Tramite un tubicino di circa 1mm di diametro (catetere) sospinto all'interno della vena malata, si inietta la sostanza sclerosante: questa schiuma irritante rimanendo a contatto con le pareti delle vene patologiche ne determina il collabimento, la sclerosi, l'occlusione, impedendo di fatto che in futuro si assista alla ricanalizzazione delle stesse e a una nuova dilatazione della vena varicosa. Oltre alla schiuma per assicurare l’occlusione si posizioneranno alcune spirali; queste sono fili di materiali vari che favoriscono la coagulazione del sangue e l’occlusione meccanica.
Fig. 4 – schiuma sclerosante |
Fig.5 – Spirali: materiale sospinto all’interno della vena da chiudere |
Fig. 5 – Immagine flebografica dopo iniezione della schiuma sclerotizzante ed embolizzazione della parte prossimale della vena ovarica incontinente
Sarà normale avvertire una sensazione dolorosa simile a quella che veniva riferita prima dell'intervento, ma questa scomparirà nel breve volgere di alcune ore o giorni (fino al mese).
Al termine della procedura il tubicino all'interno della vena viene sfilato e si procede alla medicazione del punto di accesso.
Si applica sulla cute un piccolo tampone e lo si assicura con un cerotto. Si richiede l'immobilità per le successive 2-3 ore, poi la paziente viene dimessa con il consiglio di qualche giorno di riposo, ma di tornare alla vita normale. A volte viene prescritta una terapia sintomatica al bisogno. Dopo circa 15giorni la persona potrà toranre ad eseguire qualunque attività precedentemente sostenuta.
L'unica alternativa all’intervento per via endovascolare del varicocele pelvico femminile è quella chirurgica di legatura diretta della vena ovarica in sede lombare per vioa retroperitoneale, ma non garantisce la stessa percentuale di successo dell' mobolizzazione per varie ragioni.
Consultare anche :
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CONGRESSO AFIdayLombardia - Brescia, 22 Settembre 2012
TERAPIA ENDOVASCOLARE DEL VARICOCELE PELVICO
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Angioplastica carotidea
Autore: Dott. Cesare Massa Saluzzo
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mob. 320 0120557
(ha eseguito come primo operatore circa 600 interventi di angioplastica carotidea)
Cosa sono le carotidi?
Fig. 1 – Tavola anatomica
Le carotidi, destra e sinistra sono due delle quattro arterie che portano il sangue ossigenato al cervello.
Fig. 2a –Angiografia dell’arco aortico e risonanza angio-magnetica dell’arco aortico, del tratto medio e della porzione intracranica della circolazione arteriosa |
Le carotidi nascono dall’aorta nella porzione chiamata arco, si portano nel collo e successivamente all’interno del cranio, dove terminano con le arterie cerebrali.
Fig 2b – Vista angiografica: circolazione cerebrale destra (paziente visto di fronte)
Quale è la più comune malattia che colpisce le carotidi?
Fig. 3 – Placca aterosclerotica e stenosi arteria carotide
L’arteriosclerosi e’ la principale malattia che colpisce la parete delle arterie: su di essa si depositano sostanze che costituiranno la cosiddetta placca aterosclerotica che a lungo andare determina restringimenti del loro canale (stenosi).
Cosa può succedere se la mia carotide è malata?
Come appena detto, questi “tubi“ servono a portare il sangue al cervello. In alcune condizioni dei frammenti di placca possono staccarsi e causare l’occlusione di vasi intracranici piu’ o meno grandi causando a loro volta l’acuta mancanza di sangue a porzioni piu’ o meno ampie di cervello.
Fig. 4 – Zona di cervello ischemica dopo occlusione di una piccola arteria cerebrale anteriore
In questo caso si determineranno danni al cervello con sintomi per il paziente che potranno essere temporanei, transitori (TIA) o definitivi (Ictus, stroke…) a seconda della durata e della grandezza delle lesioni cerebrali causate dall’assenza di flusso.
Fig. 5 – Esame TAC in cui si vede la zona nera, “morta”, dopo occlusione di ramo della cerebrale media sinistra
Come si può prevenire un danno cerebrale?
Facendo l’angioplastica carotidea si previene il fatto che frammenti di placca si stacchino e migrino verso il cervello e/o si evita che eventi ischemici cerebrali possano ripetersi.
Come viene fatta l’angioplastica carotidea?
Prima di tutto si entra nel sistema circolatorio arterioso attraverso il cosiddetto accesso.
Mediante esame diagnostico angiografico si studiano le arterie che compongono la circolazione cerebrale, si conferma la presenza della stenosi carotidea e la sua entità.
Fig. 6 – Angiografia: immagine di stenosi carotidea
Con un filo guida sottilissimo alla cui estremità è inguainato un ombrellino si oltrepassa il restringimento, la placca carotidea; a debita distanza si apre l’ombrellino (filtro di protezione cerebrale antiembolico).
Fig. 7 – Filtri antiembolici: catturano eventuali pezzetti di placca che eventualmente si staccano durante l’angioplastica |
L’altro estremo del filo alla cui estremità è aperto l’ombrellino è nella mani dell’operatore: sul filo viene inserito e sospinto un catetere al cui interno si trova lo stent.
Fig. 8 – Stent: reticella metallica che andrà a rivestire la placca aterosclerotica impedendone il distacco
L’operatore veicola lo stent davanti alla zona di arteria malata e lo apre. Lo stent avendo “memoria di forma” acquisirà il diametro e la lunghezza prescelta.La reticella metallica di forma cilindrica che ricopre la superficie della placca dopo circa 3 mesi sarà rivestita di neoendotelio, un nuovo sottile strato di cellule tipiche dei vasi normali.
Fig. 9a – Stenosi carotide interna sinistra |
Fig. 9b – Dopo angioplastica con stent
Nella maggior parte dei casi lo stent da solo è incapace di allargare l’arteria nel punto del restringimento.
In tal caso si usa un palloncino: questo viene gonfiato a livello del restringimento nella maggior parte delle volte dopo aver posizionato lo stent. Alcune volte il palloncino viene gonfiato anche prima del posizionamento dello stent allo scopo di far passare attraverso il restringimento il catetere contenente lo stent stesso.
Fig. 10 – Palloncino da angioplastica
Al termine della procedura si verifica che lo stent sia delle dimensioni volute, che il canale dell’arteria garantisca un buon flusso cerebrale.A questo punto si ritira il filtro di protezione cerebrale antiembolico: al suo interno potrebbero esserci frammenti di placca staccatisi durante la procedura.
Fig 11 – Piccole particelle catturate dal filtro di protezione cerebrale antiembolico
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Accesso Vascolare
Autore: Dott. Cesare Massa Saluzzo
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Ogni volta che serva accedere all'interno dell'apparato vascolare sia sul versante arterioso che su quello venoso, sia per eseguire un intervento con tecnica endovascolare (angioplastica, stenting, posizionamento di endoprotesi, posizionamento di Pace-maker, ecc.) che per poter eseguire terapie prolungate (dialisi, terapie oncologiche, ecc.) bisogna creare un "accesso vascolare".
Iniziamo col descrivere l'accesso per eseguire interventi con tecnica endovascolare e successivamento quello per eseguire terapie sostituve o infusionali.
ACCESSO VASCOLARE PER ANGIOGRAFIA O FLEBOGRAFIA
L’accesso vascolare è il punto scelto dal Medico specialista in trattamenti endovascolari per accedere all’interno dei vasi che costituiscono l’apparato circolatorio arterioso o venoso.
L’infermiere di sala, dopo eventuale depilazione della cute del punto di accesso, disinfetta un’ampia area attorno ad esso
Fig. 1 – Disinfezione e preparazione del campo sterile
e posiziona il telo sterile forato sopra al paziente.
Fig. 2a – Campo sterile per l’accesso femorale |
Fig. 2b – Campo sterile per accesso omerale ed eventualmente all’inguine |
Il Medico specialista in tecniche endovascolari esegue l’anestesia locale mediante l’iniezione di una sostanza nella cute, nel sottocute e nei tessuti attorno al vaso scelto per entrare. Il paziente avverte una sensazione di bruciore locale che velocemente svanisce: da questo momento non avvertirà più nessun dolore, ma sentirà manipolare in quella zona. Un poco di anestetico può essere ripetuto se l’intervento si protrae oltre l’ora e mezza.
Fig. 3a – Puntura dell’arteria omerale con ago-cannula |
Fig. 2b – Inserimento del filo guida attraverso l’ago |
Subito dopo l’interventista esegue la puntura diretta del vaso e, quando è al suo interno con la punta dell’ago, sospinge al suo interno un filo.
Fig. 4 – Campo sterile e filo guida all’interno dell’arteria o vena femorale
Lo specialista in metodiche endovascolari, nel nostro caso Radiologo Interventista, sul filo guida innesta un tubo che alla sua estremità esterna è dotato di valvola emostatica.
Tale dispositivo si chiama introduttore e costituisce la comunicazione diretta e permanente tra l’operatore e l’interno del corpo.
Fig. 5a – Introduttore in caso di accesso omerale |
Fig. 5b – Introduttore in arteria o vena femorale |
Gli introduttori più comunemente usati sono di 4, 5, 6 French di diametro (1 – 2 millimetri di diametro).
Fig. 6 – Introduttore con valvola emostatica e tubo per iniezione sostanze
L’accesso così confezionato consente l’introduzione di vari tipi di strumenti come fili (guide), tubicini (cateteri, microcateteri) e altri dispositivi (palloncini da angioplastica, stent, “endoprotesi”, materiale embolizzante (spirali, particelle), frese, aterotomi, filtri, farmaci, ecc.). Il materiale utilizzato durante la procedura viene rimosso con la sola eccezione degli eventuali dispositivi impiantati.
Fig. 7a – Diversi tipi di fili o guide |
Fig. 7b – Cateteri di varie fogge |
Fig. 7c – Palloncini da angioplastica |
In ordine di frequenza elenchiamo gli accessi più comuni:
- Accesso in arteria femorale o in vena femorale nella zona dell’inguine
L’arteria femorale può essere punta “controcorrente” o “verso l’alto” per dirigersi nell’addome e vero i distretti più craniali:
Fig. 8a – Schema di palpazione dell’inguine per individuare la pulsazione dell’arteria femorale prima della puntura
Fig. 8b – Introduttore in arteria o vena femorale
accedendo all’arteria femorale si potranno eseguire interventi sull’aorta addominale o toracica, angioplastica e stent dell’arteria iliaca, dell’arteria renale, pta o angioplastica con stent delle arterie carotidi, l’embolizzazione di aneurisma cerebrale, l’embolizzazione del fibroma uterino, terapia oncologiche sul fegato (TACE, TAE) e su altri organi e comunque si potranno eseguire la maggior parte degli interventi con tecnica endovascolare. Di solito si predilige l’arteria femorale destra, perché è la più vicina all’operatore che si trova appunto sul fianco destro del paziente.
L’arteria femorale può essere punta anche “isocorrente” o “verso il basso” per dirigersi verso i distretti più caudali, come gambe e piedi soprattutto nel trattamento endovascolare dell’arteriopatia diabetica in cui i vasi compromessi e da ricostruire saranno quelli al di sotto del ginocchio: il più tipico esempio è l’angioplastica per il salvataggio dell’arto nel paziente diabetico con ulcere al piede.
Fig. 9 – Schema di puntura isocorrente per dirigere i nostri strumenti verso gambe e piedi
Accedendo alla vena femorale si potranno eseguire interventi sul sistema venoso come il posizionamento di filtri antiembolici nella vena cava inferiore, le angioplastiche della vena cava inferiore o superiore, il trattamento endovascolare del varicocele maschile o femminile, il trattamento endovascolare di manutenzione dei cateteri da dialisi e l’interventistica legata alla CCSVI (Cronic CerebroSpinal Venous Insufficiency) come la angioplastica delle vene giugulari e dell’azigos. - Accesso in arteria omerale o in vena basilica o cefalica nella zona del braccio, avambraccio.
Fig. 10a e 10b – Visita del braccio appena prima della disinfezione e della preparazione del campo sterile
- Accesso in arteria radiale o “al polso”
- Accesso in arteria ascellare
- Accesso in vena giugulare (per interventistica radiologicamente guidata soprattutto in pazienti dializzati per posizionare o sostituire cateteri da dialisi, per operare sulla vena cava superiore in Sindrome della cava superiore o in ostruzioni di vasi venosi centrali.
Posizionamento di cateteri da infusione a permanenza. - Accesso in arteria poplitea dietro al ginocchio (porzione retrogenuale)
Fig. 11 –Campo sterile per puntura dell’arteria poplitea (dietro il ginocchio)
- Accesso in arteria tibiale posteriore o dorsale del piede, “alla caviglia”
Fig. 12 – Termine della procedura endovascolare dopo approccio in tibiale posteriore
Gli ultimi due tipi di accessi sono diventati importanti negli ultimi due tre anni per gli operatori, per la maggior parte Radiologi Interventisti che trattano il salvataggio dell’arto in paziente diabetico.La scelta dell’accesso dipende dalla sede della malattia da trattare, dalla comodità del paziente, dalla comodità dell’operatore e anche dalla eventuale controindicazione all’uso del più consueto punto di accesso quello inguinale, femorale; per necessità sopravvenute durante l’intervento alcune volte potrebbe essere necessario eseguire più di un accesso (3-5% dei casi).Al termine della procedura l’introduttore viene rimosso:
Fig. 13a – Introduttore ancora in sede appena prima della rimozione |
Fig. 13b – L’I.P. rimuove l’introduttore e tampona l’accesso fino all’ottenimento dell’emostasi |
il piccolo foro nella parete dell’arteria o della vena e sulla cute viene compresso da un operatore sanitario, l’Infermiere Professionale (I.P.), per ottenere la completa chiusura dell’accesso, emostasi.
L’accesso vascolare può anche essere chiuso mediante dispositivi meccanici.
Sopra l’accesso viene posizionato un tampone, costituito di garze sterili arrotolate.
Fig. 14a – Tampone |
Fig. 14b – Fasciatura compressiva al braccio |
Questo e viene assicurato alla cute, cioè mantenuto in posizione, tramite un bendaggio che dovrà rimanere in sede per circa 24ore. Con paziente immobile per almeno 5 ore dopo l’intervento; in particolare si pretende che il paziente non pieghi la gamba o la sede dell’accesso per il tempo necessario a che si crei un piccolo coagulo stabile nel punto in cui si è punta l’arteria o la vena.
Fig. 15a – Fasciatura compressiva all’inguine
Nelle immagini seguenti ciò che resta dell’accesso dopo 24 e 48 ore dall’intervento in paziente che ha rispettato l’immobilità.
In seguito ad interventi protratti o all’uso di introduttori più voluminosi o alla scarsa collaborazione del paziente potrebbe essere quasi normale la comparsa di una colorazione blu-rossastra della cute attorno al punto di accesso dovuta agli stravasi di sangue attorno all’introduttore durante le manovre interventistiche. Se così fosse segnalare il problema al personale di reparto.
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